Napoletano doc, con una viscerale passione per il calcio, sceneggiatore e autore di teatro, Maurizio De Giovanni è uno dei più grandi giallisti italiani. Ha esordito nel 2005, quasi per gioco, con un racconto avente per protagonista il commissario Ricciardi vincendo il premio nazionale Tiro Rapido riservato agli emergenti. Da allora è stata un’escalation senza fine che lo ha portato in vetta alle classifiche italiane e straniere con la saga Ricciardi e con un nuovo avvincente personaggio: l’ispettore Lojacono. Con “Vipera” e “I bastardi di Pizzofalcone”, aventi per protagonisti i due investigatori amati dal pubblico, De Giovanni ha vinto i premi Bancarella 2013, Viareggio, Camajore e Scerbanenco, partecipando nell’ottobre scorso al Festival del giallo di Cosenza. Attesissimo dai fan, il nuovo libro su Ricciardi è in uscita per Einaudi, mentre Lojacono diventerà presto una fiction.
De Giovanni, come si è scoperto scrittore?
«In realtà, non pensavo assolutamente di fare lo scrittore. A 48 anni pensavo di essere ormai fuori pericolo. Sono un lettore appassionato, di quelli che si svegliano prima la mattina per poter leggere. Poi un giorno, per farmi uno scherzo alcuni amici mi hanno iscritto a un concorso. Ho vinto con un racconto che aveva per protagonista proprio il commissario Ricciardi. Da quel momento è accaduta la magia».
Cosa rende il commissario Ricciardi così amato?
«Credo che Ricciardi abbia una particole attrattiva, non c’è dubbio, lo vedo dall’affetto dei lettori. Penso sia dovuto anche al fascino degli anni ’30 in una Napoli, questa mia città così strana, particolare pure in quell’epoca».
Non pensavo di fare lo scrittore, a 48 anni
pensavo di essere ormai fuori pericolo…
Con “Il metodo del coccodrillo” è nato l’ispettore Lojacono, protagonista anche de “I bastardi di Pizzofalcone” e “Buio per i bastardi di Pizzofalcone”. Quali sono le similitudini e le differenze tra i due personaggi?
«Sono due personaggi radicalmente diversi. Ricciardi è solitario, non conosce l’amore e non vuole conoscerlo perché ne vede gli effetti nei delitti, mossi appunto dalle passioni. È introverso, riservato e non ha affetti, a parte una tata che lo segue. È testardo e la condivisione del dolore lo porta alla ricerca ossessiva della soluzione dei casi. A Lojacono, invece, l’amore è stato sottratto. Aveva una famiglia, degli amici, una casa e all’improvviso si ritrova proiettato in un’altra realtà. Ha una figlia che ama teneramente, al centro dei suoi pensieri. È intuitivo e più pronto dal punto di vista investigativo. È come se Ricciardi vivesse dietro un vetro, mentre Lojacono vive all’interno della città».
Quanto c’è di lei nei suoi personaggi? E a quale si sente più affezionato?
«Voglio bene a tutti i miei personaggi. Tuttavia non somiglio a nessuno di loro, anzi credo che un grande limite della letteratura italiana sia scrivere un romanzo per raccontare se stessi. Posso dirle, però, che con Ricciardi condivido la compassione, il coinvolgimento del dolore altrui che non mi lascia mai indifferente, mentre con Lojacono l’amore paterno».
Lei è uno degli autori gialli più acclamati ma di fatto nei suoi romanzi il crimine diventa un pretesto per raccontare la sua città, per aprire una finestra su Napoli.
«La ringrazio per il complimento. Purtroppo è frequentissimo definire il giallo un genere minore, commerciale. Ma non è così, anzi, alcuni scrittori italiani sono annoverabili tra i migliori autori contemporanei. Per quanto mi riguarda sono ben fiero di essere uno scrittore di romanzi criminali perché il giallo ha al centro la bellezza, l’incisività delle grandi passioni e le grandi passioni sono degne di grandi romanzi. Del resto, Leonardo Sciascia diceva che il giallo è l’unico vero genere di scrittura».
Cosa consiglia ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere?
«Dico due cose: la prima di leggere e non avere la presunzione di voler scrivere senza essere lettori, sarebbe come giocare a pallone senza aver visto una partita; la seconda di non scrivere se non si ha una storia da raccontare».
Lei è anche autore di libri dedicati alla sua grande passione: il calcio. Se le dico Napoli o Maradona cosa risponde?
«Maradona è una divinità. Non credo vada nominata invano. Penso che il calcio sia degno di rispetto perché è una passione popolare che unisce, fa discutere, appassiona e quindi va tenuta nella corretta considerazione. Per Napoli, unica grande città con una sola squadra, il calcio rappresenta una grande emozione, una bandiera sotto la quale ci sentiamo tutti uniti e della quale abbiamo bisogno».